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L'intervista a Ezio Luzzi: "A volte sogno Bortoluzzi che mi chiamo per la telecronaca"

La voce di "Tutto il calcio minuto per minuto" si racconta: dagli aneddoti ai consigli per chi vuole lavorare nel mondo del giornalismo

L'intervista a Ezio Luzzi: "A volte sogno Bortoluzzi che mi chiamo per la telecronaca"
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11 Febbraio 2021 - 11.05


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Le capita mai di sognare di fare ancora una radiocronaca?

Sì, certo. Alle volte sogno Bortoluzzi o qualcuno che mi chiama e io non sono pronto, perché mi s’è rotto qualche aggeggio, o non sono arrivato ancora in postazione.

Una specie d’incubo, insomma.

Non lo so, forse più un ritorno al passato, poiché mi è accaduto di arrivare trafelato allo stadio e di afferrare il microfono all’ultimo minuto.

Cosa si prova a raccontare i fatti nel momento esatto in cui avvengono?

È un’esperienza emozionante. Ma la cosa importante è saper trasmettere l’emozione che provi, saper dosare l’enfasi, a seconda della situazione, di ciò che sta accadendo. E bisogna usare un linguaggio piano, normale, a tutti comprensibile: anche questo significa saper fare radio.

Quali sono a suo avviso le maggiori differenze tra il giornalismo sportivo dei tempi in cui lei si è formato e affermato e quello odierno? Il linguaggio? Lo stile?

Oggigiorno i giornalisti sportivi ti inondano di informazioni tecniche, di statistiche, di notizie

biografiche degli atleti. Noi a volte ce ne servivamo per prendere tempo, per allungare il discorso, quando magari non avevi visto bene un’azione, allora ti dilungavi. Poi, rispetto a noi questi sono tutti urlatori, non sono più radiocronisti o telecronisti. Questo modo di fare una radiocronaca sportiva io e quelli della mia generazione lo sentimmo per la prima volta in Sud America, in

Argentina, in Brasile, lì erano abituati a lavorare così. Però quei radiocronisti lo facevano in una maniera completamente diversa dai nostri, lo facevano non solo con grande mestiere, ma in maniera innata, nascevano in quel contesto e avevano quel modo di trasmettere le emozioni. Rispetto a loro i nostri sono degli imitatori dilettanti, quindi il risultato è completamente diverso.

Mi ha molto colpito il suo racconto di come venivano formati i radiocronisti da Sergio Zavoli e dagli altri decani. In Rai ormai temo si sia perso quel rigore nella formazione professionale dei giovani giornalisti: le risulta?

Le nostre erano esperienze assolutamente formative, della serie, adesso ti metto alla prova, vediamo che sai fare. Ci portavano in piazza San Pietro, deserta, alle sei del mattino, c’erano solo gli spazzini, e ci facevano inventare una radiocronaca, dovevi immaginarti e descrivere il papa che si affacciava e benediceva la gente lì radunata. Mi ricordo un giorno, allo stadio, arrivò Aldo Salvo, uno dei nostri formatori, e ci disse: “Guardate lì, c’è un aereo che sta cadendo sugli spalti, raccontatelo”. Te l’immagini? Poi all’epoca era ben diverso da oggi, quando c’era un incidente non potevi dare la notizia di una morte se prima i familiari delle vittime non erano stati avvertiti, si doveva usare molta cautela, tatto. Per esempio, mi capitò di dover dare la notizia in diretta della morte di Re Cecconi, ucciso in un finto tentativo di rapina: rimasi sconcertato, tra l’altro lo conoscevo bene, lui e la moglie, tentennai, non sapevo se lei già era stata avvertita, in redazione mi premevano, “Vai avanti, vai avanti”, alla fine mi arrangiai dicendo “È accaduto un grave incidente, vi daremo dei particolari non appena sapremo”, eccetera. Non dissi che era morto. Quella era la scuola. Comunque in Rai non esiste più una scuola, non si formano più i giovani, niente. Per non parlare del linguaggio, delle voci, tutte uguali, un magma indifferenziato. All’epoca ognuno di noi aveva un proprio stile, una propria voce inimitabile, un proprio linguaggio. Pensa a Sandro Ciotti, alla sua grande cultura, che spaziava in ogni campo.

Quali consigli darebbe ad un giovane che volesse intraprendere il mestiere del giornalista sportivo?

Innanzitutto, conoscere bene l’italiano. Conoscere il congiuntivo e saperlo usare: questa è la prima cosa. Per esempio, Enrico Ameri aveva un linguaggio unico, era una mitraglia, un treno in corsa, eratrascinante. Quando descriveva un’azione usava sempre le parole giuste, corrette, non a cavolo di cane, così come ti vengono. Poi, imparare a fare radio, carpire i segreti del mestiere. Quindi essere corretto, fare attenzione a come dare le notizie, soprattutto se stai facendo un servizio di una certa importanza.

Lei ha lavorato per oltre trent’anni sui campi della serie B, spesso in condizioni disagevoli e pericolose, portando all’attenzione mediatica e nobilitando la serie cadetta e la provincia

italiana, entrambe all’epoca poco considerate. È una cosa di cui va fiero?

Certo, ne vado fiero. Come racconto nell’autobiografia, nella B ci sono entrato per caso. Io seguivo la serie A, si creò un buco, Mario Gismondi che seguiva la B divenne direttore di Tuttosport, e Guglielmo Moretti durante una riunione m’incastrò, mi prese alla sprovvista, dicendo ai colleghi: “Vorrei ringraziare Ezio Luzzi che ha accettato di seguire la B, togliendomi dall’imbarazzo”.

All’inizio ero un po’ riluttante, mancavano tre mesi alla fine del campionato e Moretti mi disse “Vai e poi ti riporto a seguire la A”. Poi mi sono accorto che la serie cadetta era molto interessante, era un serbatoio naturale del campionato del calcio italiano, allenatori e grandi giocatori venivano tutti dalla B, gente che contribuivo a far conoscere. Alcuni di loro, come Arrigo Sacchi, me ne sono stati riconoscenti, molti altri, che mi cercavano continuamente, non lo sono stati per niente. All’epoca, quando arrivavo io in provincia era una festa, sapevano che per un paio d’ore sarebbero stati alla ribalta, tramite la radio. La B all’epoca era una grande famiglia, si parlava della città, dei monumenti, del cibo, era una dimensione culturale. Poi c’era la questione della divisione dei soldi da parte della Lega calcio, all’epoca prendeva quasi tutto la serie A. Allora alcuni presidenti mi chiamarono e mi chiesero di dare una mano a riequilibrare la situazione. Facemmo un giornale, che io diressi, “Tutto B”, poi il ragioniere se ne scappò con la cassa e creammo “Super B”, e pian piano la serie cadetta assunse centralità. Senza contare che in provincia c’erano dei personaggi straordinari, unici: il presidente dell’Ascoli Costantino Rozzi, mio caro amico, quello del Pisa, Anconetani, Jurlando del Lecce.

Alfredo Provenzali disse che uno dei segreti del successo di “Tutto il calcio minuto per

minuto”, era che fosse costituito da solisti con un fortissimo senso di squadra. Malgrado le liti e le incomprensioni, quel team era tutto unito dal desiderio di un risultato finale eccellente.

Lo pensa anche lei?

Certo. Eccola lì la squadra classica di “Tutto il calcio”: Ameri, Ciotti, Provenzali, Ferretti, Luzzi dai campi, e Bortoluzzi dallo studio. Esseri uniti, tesi verso un unico risultato, come una vera squadra: questo intendeva Provenzali. Poi, gli screzi, per esempio tra Ameri e Ciotti, erano relativi: tra i due c’era una grossa rivalità, però quando non si vedevano si cercavano. Erano molto legati.

Ricorda qualche particolare strafalcione nel migliaio di radiocronache che ha fatto?

Uno lo ricordo benissimo. Ero a Piacenza. Quei soloni degli ingegneri avevano costruito la cabina radio, di vetro, dentro la cabina stampa, pure di vetro. Puoi immaginare: l’azione stava di là, e io la vedevo di qua: capito? Allora, era andato in vantaggio il Piacenza, non ricordo contro chi, forse il Como, e al secondo gol dissi che aveva raddoppiato, invece aveva pareggiato l’altra squadra. Per me era 2-0, allora i colleghi che stavano sotto mi dissero: “Ah Ezio, ma che dici, guarda che stanno 1-1”. Così trovai l’escamotage che il gol era stato annullato, per salvarmi. Sì, le gaffe ti capitano, poi, che vuoi, avrò fatto un migliaio di radiocronache. Quella è stata la più clamorosa.

Qual è la sua partita della vita?

Be’, la partita della vita è la finale di Madrid, Italia-Germania, nel 1982. Per un radiocronista il massimo sono i Campionati del mondo, figurati poi vincerli. Io stavo a bordocampo, quindi negli spogliatoi. Un’esperienza indimenticabile.

Ha qualche particolare rimpianto riguardo la sua lunga attività professionale, per esempio un servizio o un’intervista che avrebbe voluto realizzare?

Rimpianti onestamente no. Tranne Pelè, che non rilasciava interviste alla radio, li ho intervistati tutti, a cominciare da Maradona. All’inizio era riluttante, poi quando gli dissi che sono nato in Argentina divenne affabilissimo.

C’è qualche aneddoto che non ha inserito nel libro, e che avrebbe voluto raccontare?

Ce ne sono tantissimi. In realtà ero partito con un libro non troppo denso, non immaginavo che avrebbe avuto il successo che sta avendo. Magari più avanti faremo un’altra edizione, più arricchita, chissà.

Come procede il progetto High School Radio che lei ha ideato insieme a suo figlio Paolo?

​In questo momento siamo fermi, ovviamente. Funzionava così: ogni scuola formava una squadra, che veniva qui in radio, i ragazzi avevano un’ora a settimana e avevano l’opportunità di fare radio: inventavano format, programmi. Ma non abbiamo mai avuto l’aiuto del Muir, un consenso scritto sì, ma un aiuto concreto, finanziario, mai. Anzi, ci hanno pure rubato l’idea, hanno tentato di fare una radio del Ministero attraverso le scuole, solo che il Covid ha fermato tutto. Noi siamo ancora in piedi, avevamo coinvolto anche scuole all’estero, ma al momento è tutto fermo. I ragazzi venivano volentieri, noi gli insegnavamo quello che dicevamo prima: cos’è la radio, come si fa la radio. Avessimo avuto noi questa opportunità a nostri tempi!

 

 

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