di Maurizio Boldrini
Accendo la televisione e vedo che il calcio al mondo ancora c’è. Facile parafrasare il vecchio motivo del molleggiato per esultare di fronte allo schermo, piccolo o grande che sia. Il prato è verde e la palla è ancora tonda. Dagli studi, festanti presentatori e presentatrici annunciano di esser commossi a esser lì “ per raccontarvi una serata magica”.
Ci sono tutti: giornalisti, ex- allenatori, ex-giocatori e giocolieri. Gli spalti vuoti e studi pieni. Le parole della retorica sgorgano a gogò: partita vera, tridente inedito, panchina lunga, per fortuna si riparte, comincia un altro calcio e incomincia un’altra vita, Ronaldo è tornato carico, l’arbitro una certezza. Evviva. I tifosi, compresi gli arrabbiati ultras, se la godono in poltrona con la birra a portata di mano e rutto libero. Improperi e maledizioni rimbalzano di finestra in finestra. Altro che lo sventolar di bandiere tricolori o l’intonar canti propiziatorio in quel tempo dell’eremitaggio forzoso tra le mura di casa. Immagini ormai lontane, buone per qualche documentario. Era il tempo del Covid, delle zone rosse che spargevano terrore in ogni angolo del paese e dei terribili collegamenti pomeridiani con i dati della pestilenza. Era il tempo della Paura individuale e collettiva. La partita è vera, non è preregistrata, si giocano per dirla, ancora, con le parole della conduttrice di turno, “ la prima coppa vera dopo il Covid”.
Mica la coppa del nonno (ogni riferimento all’immane scomparsa dei vecchi è puramente casuale). Stasera dominano i colori bianconeri e rossoneri. Domani sera azzurri e nerazzurri. Puntuali i giocatori entrano in campo scaglionati. Poche smancerie. Via gli abbracci. Dopo novantacinque giorni senza calcio tanti giovanotti in calzoncini e magliette ronzano intorno alla palla. Ci siamo. Inno della coppa (brutto, a dire il vero) e via al calcio che “ va oltre al virus”. Un po’ di pubblicità non guasta, nemmeno nel cosiddetto servizio pubblico. Fischio d’inizio squillante e applauso. Maglie antirazziste. Minuto di silenzio, pelle d’oca: dice il telecronista. Via. Madonna che silenzio c’è stasera. Sì, il calcio è tonato tale e quale a quello che avevamo perso per strada. Noioso. Più che altro sono tornate quelle ammuffite parole che accompagnano il pallone che rotola: la prima chance, nitida palla gol, danza sul pallone, tridente offensivo, invertita la posizione, prolunga la traiettoria. Il gioco è lo stesso.
I ventidue si rincorrono, mirano gli stinchi, sudano, danzano coscia a coscia.
Non ho visto nessuno sputare per terra o soffiarsi il naso al volo, tappandosi una narice. Che abbiano imparato l’educazione civica? Le parole sono le stesse, come la musica andina che si ripete sempre uguale. Perché ci attira così tanto questo giochino? Perché siamo così incantati dallo spettacolo della finta gioia come qualche tempo fa eravamo attratti dallo spettacolo del dolore? La televisione macina tutto, mangia le bare accatastate e beve le molteplici forme dell’intrattenimento. Un rito dentro il quale si specchiano gli altri piccoli riti: la corsa al Var, il rigore sbagliato, l’espulsione doverosa, l’entrata dei cinque (cinque) panchinari. Chi vincerà?
Ai cronisti la risposta scritta con dettagli e con pagelle al merito. Allo striscione del traguardo. Forse vincerà la più forte, cioè e la squadra più ricca che poi è sempre la stessa. Non importa come. Certamente vincerà lo share. Nonostante la Rai.