Un anno dalla scomparsa di Kobe Bryant: dopo di lui, il basket non è stato più lo stesso | Globalsport
Top

Un anno dalla scomparsa di Kobe Bryant: dopo di lui, il basket non è stato più lo stesso

Il grande campione Nba ebbe un incidente il 26 gennaio, dove morì anche sua figlia Gianna. Il suo grande legame con l’Italia e il rapporto con i colleghi

Un anno dalla scomparsa di Kobe Bryant: dopo di lui, il basket non è stato più lo stesso
Preroll

Globalsport Modifica articolo

26 Gennaio 2021 - 12.24


ATF

Quando il 26 gennaio del 2020 uscì la notizia della morte di Kobe Bryant in un incidente in elicottero poco fuori Los Angeles, sulle colline di Calabasas, ognuno di noi si ricorda dove era e cosa stava facendo.

Tutti gli appassionati di sport, non solo quelli di basket sperarono che non fosse vero, ma le voci si susseguirono e non ci fu altro che l’accettazione di una notizia che speravamo falsa.

Assieme a Kobe, in quella maledetta mattinata, c’erano altre otto persone, nessuna delle quali riuscì a salvarsi: tra di loro anche la figlia Gianna Maria, detta Gigi, che aveva soltanto 13 anni ma sognava in grande, tanto che pensava già all’università e a una carriera da cestista per raccogliere l’eredità del padre, dal quale non si separava praticamente mai.

Un dolore aggiunto al dolore, capace di fermare un Paese che, quasi cinicamente, fa molto spesso dell’espressione “the show must go on” un vero e proprio mantra.

Kobe, nato a Philadelphia ma cresciuto in Italia (tra Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia, sempre a seguito di papà Joe ‘Jellybean’ Bryant), si era fatto uomo in Nba, dove era diventato, tra molti alti e anche qualche basso, sempre reagendo con determinazione e uscendone più forte di prima, il ‘Black Mamba’, con riferimento al serpente velenoso più veloce e letale al mondo.

Proprio grazie a quella che lui chiamava ‘mamba mentality’, che riassumeva determinazione, etica del lavoro e capacità di reagire alle difficoltà, Bryant aveva vinto cinque titoli nella Lega Nba (2000, 2001, 2002, 2009 e 2010) e ottenuto un’infinita serie di premi individuali, sempre con la canotta dei Los Angeles Lakers. 

Aveva anche vinto due ori olimpici con gli Stati Uniti.

Era stato capace, poi, di realizzare una serie di record impareggiabili ed è tuttora il titolare della seconda miglior prestazione assoluta in Nba, gli 81 punti rifilati il 22 gennaio 2006 ai Toronto Raptors.

Il basket giocato era un capitolo chiuso serenamente, con la consapevolezza di chi, alla palla a spicchi, aveva dato tutto sul parquet. Un concetto espresso al meglio nel cortometraggio ‘Dear Basketball’, vincitore di un Oscar nel 2018.

Dopo il celebre ‘Mamba out’, la frase con cui concluse il discorso tenuto dopo la sua ultima partita in carriera, aveva deciso di dedicarsi completamente alla famiglia e di usare la sua immagine per il bene della comunità.

Aveva fondato la Mamba Sports Foundation (oggi dedicata anche alla ‘Mambacita’ Gigi e gestita da Vanessa, la vedova di Kobe) per aiutare le famiglie meno fortunate e sottrarre ragazze e ragazzi dai pericoli della strada.

Era rimasto nell’ambiente cestistico promuovendo anche la pallacanestro al femminile, da sempre figlia di un dio minore. Aveva poi mantenuto i contatti con gli ex compagni (soprattutto con Pau Gasol, che ha addirittura dato il secondo nome ‘Gianna’ alla figlia) e persino appianato definitivamente le divergenze con Shaquille O’Neal, che dopo i tre titoli vinti assieme andò via da L.A. proprio per il deteriorarsi del rapporto con Bryant.

Shaq era tornato ad essergli amico dopo anni di rivalità, ed è stato uno di quelli che più ha sofferto per la morte di Kobe. 

Dopo il 26 gennaio 2020, Il basket non è stato più lo stesso, soprattutto in Nba.

A Kobe, inevitabilmente, i Lakers hanno dedicato il titolo vinto nell’ottobre 2020, nella bolla di Orlando, al termine della stagione più surreale della storia a causa della pandemia. LeBron James, che proprio il giorno prima del tragico incidente aveva superato Kobe nella classifica marcatori di tutti i tempi, ha dato tutto per ottenere il successo e poterlo dedicare alla sua memoria. Mancava terribilmente la sua presenza, ancorché esterna, di quel simbolo della Los Angeles gialloviola, del basket in generale, di tutto lo sport.

La Nba ha perso un anno fa uno dei suoi ambasciatori più carismatici, uno di quelli che nella sua vita era stato capace di dimostrare che lo sport può davvero migliorare le persone, non solo dal punto di vista fisico ma anche da quello del carattere.

Uno di quelli che prima ancora di essere un giocatore era un appassionato, uno che ha fatto del suo sacrificio il suo sport e che andava alle partite per abbracciare e dare consigli a LeBron James, Giannis Antetokounmpo, Luka Doncic, sciogliendosi in un sorriso che manca a tutti.

 

Native

Articoli correlati