“Montebelluna, dove sono nato, è diventata famosa dopo lo sbarco dell’uomo sulla Luna, quando i nostri Moon Boout invasero il mondo e diventammo la capitale mondiale delle scarpe sportive, anche se eravamo già il paese del “vecchio scarpone quanto tempo è passato…” di molti anni prima. Ho lavorato anch’io nella fabbrica di scarpe di mio zio. E anch’io sono andato sula Luna. A 18 anni, quando sono passato, senza neppure accorgermene, dagli ottocento spettatori dello stadio Comunale San Vigilio agli ottantamila di San Siro. Dalla Montebellunese all’Inter è stato il primo passo di una vita che non avrebbe più smesso di stupirmi”, dice al Foglio.
La parola chiave della vita e della carriera di Aldo Serena, tre scudetti con tre squadre diverse, 160 gol, di cui la metà di testa, e un’irripetibile militanza in tutte le grandi della Serie A, è proprio lo stupore di chi i suoi diciotto anni li ha prolungati sinché ha potuto e, a pensarci bene, non ha mai smesso di viverli…
“Ero stato aggregato alla prima squadra dell’Inter. La mia prima volta a San Siro è stata un’amichevole di precampionato contro il Vicenza. A vederlo dall’esterno di notte lo stadio mi sembrò per l’appunto una nave spaziale, con tutta quella gente che brulicava intorno, in attesa del lancio. Io non avevo mai visto dal vivo una squadra di serie A, prima di giocarci”.
Inter, Como, Bari, Inter, Milan, ancora Inter, Torino, Juventus, ancora Inter e ancora Milan. Eppure a vederla e sentirla da vicino, non sembra avere le physique du role del giramondo di professione…
“Allora vigeva il regime di vincolo. Sino al 1991 non ho mai potuto scegliere. Ero di proprietà dell’Inter, che di anno in anno decideva il mio destino prestandomi a destra e a manca. Fosse stato per me avrei girato molto di meno. Ovunque sono andato, mi sono trovato bene, ma non è facile cambiare ogni anno maglia, allenatore, compagni e tifosi. Ogni volta ricominciare. E riconquistare. Ho dovuto modificare il mio carattere e vincere la mia innata pigrizia. Ripensandoci ora, sono felice che sia andata così, anche perché ho potuto conoscere, dentro e fuori del calcio, un’infinità di persone di grande spessore, che mi hanno aiutato a crescere”.
Ha giocato insieme e contro i calciatori più forti del mondo. Chi sceglie fra Maradona e Platini?
“Maradona era e resta inarrivabile, ma Platini, almeno quello che ho conosciuto io, era un seduttore. Era cresciuto negli anni caldi, a cavallo fra il ‘68 e il ’77. Era ironico, loquace, dissacrante e all’occorrenza, capace di liberarti al tiro con un lancio da quaranta metri. Nessun altro mi ha affascinato, come persona, prima ancora che come calciatore, più di lui”.
E quale è il giocatore a cui è rimasto più affezionato?
“Uno, che da 23 anni non c’è più. Capitano. Mio capitano. Amico mio. Gaetano Scirea era un uomo incredibile, oltre che un calciatore di straordinario valore. Quando sono arrivato alla Juventus, ha voluto che fossi il suo compagno di stanza e mi ha detto tutto quello che serviva, abitudini, meccanismi, intrecci, di cui tener conto, se volevo ambientami in fretta. Era un leader carismatico e una persona gentile, umile e premurosa, come nessuno delle centinaia di calciatori che ho conosciuto. Era una mosca bianca nella giungla del pallone. Unico e inimitabile”.
Quale è stato il suo momento più bello?
“Sono tanti, tantissimi, forse nessuno. Perché tutta la mia carriera è stata una favola, che ho continuato a leggere con gli occhi di un bambino incredulo e stupito per tanta meraviglia. Io ho vissuto una vita che non mi sarei aspettato di vivere. Quando la felicità è arrivata, ho continuato a respirarla senza un attimo di tregua, attimo dopo attimo. Non c’è stato il momento più bello, ma solo una felicità costante, come accade solo nelle favole”.
Ma ci sarà un gol indimenticabile?
“In questo caso la risposta non è vaga, ma concreta. Posso indicarle la data e l’attimo fuggente. Era il 25 giugno del 1990. Roma. Ottavi di finale dei mondiali. Italia-Uruguay 2-0. Quel giorno compivo 30 anni. Ho ricevuto due bellissimi regali. Il primo me l’ha fatto Azeglio Vicini, facendomi entrare a partita in corso. Il secondo me lo sono fatto da solo, segnando di testa al minuto 83 il il gol della sicurezza, dopo che eravamo passati in vantaggio, grazie a un mio assist sfruttato alla perfezione da Totò Schillaci. Fu il gol dell’estasi, mio, della squadra e dell’intero stadio Olimpico”.
Otto giorni dopo ci sarebbe stata l’amarissima eliminazione ai calci di rigore nella semifinale contro l’Argentina di Maradona a Napoli, dove lei passò di botto dall’estasi all’incubo…
“Io sbagliai uno dei due penalty che decretarono la nostra eliminazione. Non ero nella cinquina di quelli che avrebbero dovuto tirarli. Mi sentivo ormai fuori dalla partita e dai giochi, ma a un cero punto mi si avvicinò Vicini e mi disse: Solo tre mi hanno dato la loro disponibilità. Tu te la senti?”. Non ebbi il coraggio di dirgli di no, anche perché non ero un calciatore di primo pelo. Quando, però, mi preparai per la rincorsa, non ero più io. Mi tremavano le gambe. Facevo fatica a respirare. Tirai, sbagliai e di quello che accadde da quel momento sino alla finalina per il terzo posto, che quattro giorno vincemmo a Bari contro l’Inghilterra, non ricordo nulla. Gli abbracci consolatori dei compagni li ho visti in televisione qualche tempo dopo. Fu una crisi di punico in piena regola, la prima e l’ultima della mia carriera. Evidentemente anche la favola più bella ha il suo orco cattivo”.
Quelli della sua, e mia, generazione dicono tutti che il calcio di oggi non ha niente a che spartire con quello di una volta. E’ così anche per lei? “
È cambiato il mondo. È cambiata la società. Sono cambiati i ritmi. Il calcio di quaranta anni fa apparteneva a un’altra era geologica. Non c’erano le tecnologie, la medicina e lo studio meticoloso di ogni particolare. Allora gli osservatori di professione andavano a vedere la partita della squadra che dovevi incontrare la domenica successiva e riferivano all’ignaro allenatore. Ora tutto viene ingrandito, letto e filtrato al computer nello stadio virtuale”.
Il rovescio della medaglia è che, per colpa del computer, sono in via di estinzione le favole e anche quella del calcio è diventata una famiglia virtuale, dove tutti si parlano solo a distanza…
“Ho sempre dato una grande importanza alle relazioni umane e quelle nella mia epoca non erano una merce rara. Si potevano intrattenere con i giornalisti, che entravano negli spogliatoi, quando eravamo ancora sotto la doccia e con i tifosi, che ci aspettavano all’uscita. Il calcio non era solo campo. Non era solo gol, ma anche un dialogo diretto, continuo e appassionato. . Ora è tutto filtrato. È tutto virtuale. I rapporti sono più comodi e veloci, ma, se non c’è la fisicità, se non ci si guarda negli occhi, se non ci si tocca, è tutta un’altra cosa. Lo stupore non è riducibile a un like”.
C’è un calciatore in cui si rivede?
“Dal punto di vista tecnico no. Mi rivedo, questo sì, in alcune facce, in alcuni imbarazzi, in alcune timidezze, al momento delle interviste. L’ingenuità mi fa ancora sorridere e intenerire. Sono un’eccezione perché oggi a 18 anni sono già smaliziati e navigati e sanno perfettamente cosa dire e non dire. Mi rivedo nell’impaccio minoritario di chi si affaccia alla ribalta ed è spiazzato dalle domande sui suoi primi momenti di gloria”.
Aldo Serena in televisione si vede meno di prima. Come passa il suo tempo? Non si annoia?
“Io sto bene così. Il tempo, quando non hai più almeno anagraficamente, 18 anni, scorre veloce, troppo veloce. Io cerco di fermarlo, rallentando i ritmi. Quando si è giovani e impazienti, le giornate sembrano interminabili. A 60 anni non si fa in tempo a finire un giorno che ne inizia un altro. La vita mi ha regalato tanto. Ora non c’è più fretta. Né tempo per colpire di testa”.
La vita, fra tante altre cose, compresa una meravigliosa famiglia, le ha, per l’appunto, regalato il talento dei colpi di testa, che sono, al tempo stesso, un’arma, un limite e una metafora della vita…
“Mio padre è stato il centravanti della Montebellunese e i gol di testa erano la sua prerogativa. E poi, quando ero piccolo, non avevo molto tempo a disposizione per giocare all’oratorio. C’era solo la domenica e, nella smania di non perdermi niente, mi dividevo fra calcio, pallavolo e basket. E lì che ho affinato la mia predilezione per il balzo. Mi è sempre piaciuto saltare, andare più in alto, non darla vinta alla gravità. In quei due o tre secondi riesci a comprimere e all’unisono dilatare il tempo che serve per osservare tutto dall’alto e fare una velocissima verifica su che cosa sta succedendo in basso. Colpire di testa è un’attitudine che, più dei calci al pallone, si può coltivare e migliorare nel tempo con l’esercizio e la volontà. Con la testa non colpisco più, ma la vita è troppo bella, anche se la guardi da quaggiù”.