Il razzismo e il suicidio di Seid Visin a 20 anni: "Sguardi schifati per la mia pelle"

L'ex calciatore delle giovanili di Milan e Benevento era stato adottato in Etiopia quando aveva 3 anni. La sua lettera un atto d'accusa

Il razzismo e il suicidio di Seid Visin a 20 anni: "Sguardi schifati per la mia pelle"
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5 Giugno 2021 - 16.14


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Il razzismo malato di questo pese ha fatto una nuova vittima: il suicidio di Seid Visin, ex promessa del Milan che si è tolto la vita per colpo dei troppi commenti della gente sulla sua pelle, merita risposte e deve farci riflettere.

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Seid Visin non è morto per un malore, ma ha scelto di togliersi la vita per il clima di razzismo che respirava in Italia: il 20enne calciatore di origine etiope adottato da bambino da una coppia di Nocera Inferiore (in provincia di Salerno) che aveva militato nelle giovanili del Milan e del Benevento ha lasciato una lettera per spiegare le ragioni del suo gesto. 

L’ha diffusa sui social l’associazione “Mamme per la Pelle”, fondata dalla milanese Gabriella Nobile, per “urlare forte che se non ci uniamo in una vera lotta antirazzista, i nostri figli continueranno a soffrire”. La lettera, risalente al gennaio 2019 pubblicata sui social dopo la sua morte dalla sua psicologa Rita D’Antuono D’Ambrosio, ha commosso il mondo della politica che si è interrogata sullo spinoso tema del razzismo. “Se puoi scusaci”, è il commento del segretario dem Enrico Letta. 

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“Non tutti abbiamo oggi il diritto di piangerlo – afferma Osvaldo Napoli, deputato di ‘Coraggio Italia’ – molti di noi politici hanno invece il dovere di interrogarsi sulla deriva di inciviltà e di cialtroneria che ha colpito un popolo un tempo conosciuto come ‘brava gente'”.

“La disperazione che emerge dalla lettera di questo ragazzo giovanissimo, nel fiore degli anni e delle energie  – sottolinea Mara Carfagna, ministro per il Sud e la Coesione territoriale – è una macchia che deve riempire di vergogna chiunque coltivi il disprezzo verso l’altro”.

Seid ha scritto che “ovunque io vada, ovunque io sia, ovunque mi trovi sento sulle mie spalle, come un macigno, il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone”.

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L’addio di Donnarumma – “Ho conosciuto Seid appena arrivato a Milano, vivevamo insieme in convitto, sono passati alcuni anni ma non posso e non voglio dimenticare quel suo sorriso incredibile, quella sua gioia di vivere”. Gianluigi Donnarumma, giovane portiere della Nazionale di calcio, racconta all’Ansa il suo dolore per un compagno di strada perso troppo presto: “Era un amico, un ragazzo come me”.

Una sensazione terribile alla quale lui non era abituato, perché “non sono un immigrato. Sono stato adottato quando ero piccolo. Prima di questo grande flusso migratorio ricordo con un po’ di arroganza che tutti mi amavano. Ovunque fossi, ovunque andassi, ovunque mi trovassi, tutti si rivolgevano a me con grande gioia, rispetto e curiosità”.

Poi le cose sono cambiate: “Sembra che misticamente si sia capovolto tutto, sembra ai miei occhi piombato l’inverno con estrema irruenza e veemenza, senza preavviso, durante una giornata serena di primavera”.

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La lettera continua: “Qualche mese fa ero riuscito a trovare un lavoro che ho dovuto lasciare perché troppe persone, prevalentemente anziane, si rifiutavano di farsi servire da me e, come se non bastasse, come se non mi sentissi già a disagio, mi additavano anche la responsabilità del fatto che molti giovani italiani (bianchi) non trovassero lavoro”.

Dopo questa esperienza, “dentro di me è cambiato qualcosa: come se nella mia testa si fossero creati degli automatismi inconsci; come se mi vergognassi di essere nero, come se avessi paura di essere scambiato per un immigrato, come se dovessi dimostrare alle persone che non mi conoscevano che ero come loro, che ero italiano, che ero bianco”.

E questo – racconta ancora Seid nella sua lettera d’addio – “quando stavo con i miei amici, mi portava a fare battute di pessimo gusto sui neri e sugli immigrati. Addirittura con un’aria troneggiante affermavo che ero razzista verso i neri, come a voler sottolineare che io non ero uno di quelli, che io non ero un immigrato. L’unica cosa di troneggiante però, l’unica cosa comprensibile nel mio modo di fare era la paura. La paura per l’odio che vedevo negli occhi della gente verso gli immigrati, la paura per il disprezzo che sentivo nella bocca della gente, persino dai miei parenti che invocavano costantemente con malinconia Mussolini e chiamavano ‘Capitano Salvini’. La delusione nel vedere alcuni amici (non so se posso più definirli tali) che quando mi vedono intonano all’unisono il coro ‘Casa Pound'”.

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Così il 20enne, che aveva rinunciato al calcio professionistico per dedicarsi allo studio e ora viveva il suo amore per il pallone sui campi di calcio a 5, ha deciso di farla finita: “Con queste mie parole crude, amare, tristi, talvolta drammatiche non voglio elemosinare commiserazione o pena, ma solo ricordare a me stesso che il disagio e la sofferenza che sto vivendo io sono una goccia d’acqua in confronto all’oceano di sofferenza che stanno vivendo quelle persone dalla spiccata e dalla vigorosa dignità, che preferiscono morire anziché condurre un’esistenza nella miseria e nell’inferno”.

Persone che “rischiano la vita, e tanti l’hanno già persa, solo per annusare, per assaporare, per assaggiare il sapore di quella che noi chiamiamo semplicemente Vita”.

Le reazioni politiche – “Se puoi, scusaci”. Lo scrive su Facebook il segretario del Partito democratico, Enrico Letta, rivolgendosi a Seid Visin. “La lettera di addio di Seid Visin è un pugno allo stomaco. Ma che società vogliamo essere? Mi auguro che anche una “certa” politica rifletta sulle conseguenze delle sue sprezzanti parole” twitta Laura Boldrini, deputata del Pd. “Chi sostiene che in Italia non ci sia un problema di odio razziale si rilegga quella lettera d’addio” scrive in una nota il deputato di LeU Erasmo Palazzotto.

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“Il suo gesto estremo deve portarci a riflettere sulla nostra società e ammettere che abbiamo fallito” scrive su Twitter la sottosegretaria Pd, Caterina Bini. “Oggi parlano tutti e giustamente di ambiente, di transizione ecologica per salvare il pianeta. A volte mi chiedo se saremo in grado di salvarci da noi stessi” commenta il ministro delle Politiche agricole, Stefano Patuanelli.

Il testo integrale della lettera

“Dinanzi a questo scenario socio-politico particolare che aleggia in Italia, io, in quanto persona nera, inevitabilmente mi sento chiamato in questione. Io non sono un immigrato. Sono stato adottato quando ero piccolo”, si legge. “Prima di questo grande flusso migratorio ricordo con un po’ di arroganza che tutti mi amavano. Ovunque fossi, ovunque andassi, ovunque mi trovassi, tutti si rivolgevano a me con grande gioia, rispetto e curiosità.”
“Adesso, invece, questa atmosfera di pace idilliaca sembra così lontana; sembra che misticamente si sia capovolto tutto, sembra ai miei occhi piombato l’inverno con estrema irruenza e veemenza, senza preavviso, durante una giornata serena di primavera. Adesso, ovunque io vada, ovunque io sia, ovunque mi trovi sento sulle mie spalle, come un macigno, il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone”, scrive ancora.
“Qualche mese fa ero riuscito a trovare un lavoro che ho dovuto lasciare perché troppe persone, prevalentemente anziane, si rifiutavano di farsi servire da me e, come se non bastasse, come se non mi sentissi già a disagio, mi additavano anche la responsabilità del fatto che molti giovani italiani (bianchi) non trovassero lavoro – si legge – .”
“Dopo questa esperienza dentro di me é cambiato qualcosa: come se nella mia testa si fossero creati degli automatismi inconsci e per mezzo dei quali apparivo in pubblico, nella società diverso da quel che sono realmente; come se mi vergognassi di essere nero, come se avessi paura di essere scambiato per un immigrato, come se dovessi dimostrare alle persone, che non mi conoscevano, che ero come loro, che ero italiano, che ero bianco”.
“Il che, quando stavo con i miei amici, mi portava a fare battute di pessimo gusto sui neri e sugli immigrati, addirittura con un’aria troneggiante affermavo che ero razzista verso i neri, come a voler affermare, come a voler sottolineare che io non ero uno di quelli, che io non ero un immigrato. L’unica cosa di troneggiante però, l’unica cosa comprensibile nel mio modo di fare era la paura.”
“La paura per l’odio che vedevo negli occhi della gente verso gli immigrati, la paura per il disprezzo che sentivo nella bocca della gente, persino dai miei parenti che invocavano costantemente con malinconia Mussolini e chiamavano ‘Capitano Salvini’. La delusione nel vedere alcuni amici (non so se posso più definirli tali) che quando mi vedono intonano all’unisono il coro ‘Casa Pound’”.
“L’altro giorno, mi raccontava un amico, anch’egli adottato, che un po’ di tempo fa mentre giocava a calcio felice e spensierato con i suoi amici, delle signore si sono avvicinate a lui dicendogli: ‘goditi questo tuo tempo, perché tra un po’ verranno a prenderti per riportarti al tuo paese’. Con queste mie parole crude, amare, tristi, talvolta drammatiche, non voglio elemosinare commiserazione o pena, ma solo ricordare a me stesso che il disagio e la sofferenza che sto vivendo io sono una goccia d’acqua in confronto all’oceano di sofferenza che stanno vivendo quelle persone dalla spiccata e dalla vigorosa dignità, che preferiscono morire anziché condurre un’esistenza nella miseria e nell’inferno.”

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