di Marco Buttafuoco
Un atipico, in tutto e per tutto. Così si potrebbe riassumere la vicenda calcistica di Mario Corso, morto oggi a settantotto anni.
Fu ai suoi i tempi, quelli dell’Inter dei primi anni sessanta, l’Inter di Helenio Herrera, dei talenti più puri. Il suo piede sinistro era una leggenda calcistica di allora; usava solo quello per giocare, il destro, come scriveva Gianni Brera, gli serviva solo come appoggio, come stampella. Era capace di dribbling prodigiosi e di calci di punizione con una traiettoria (la celebre “foglia morta”) che si abbassavano subito dopo aver scavalcato la barriera, ma non entrò mai veramente, nella storia del calcio.
Dava l’impressione di stare in campo svagatamente, con pigrizia. Si muoveva con passo lento, meditabondo, a lampi. Appariva e spariva. Micidiale, nelle giornate giuste, con la palla al piede, latitava in tante occasioni. Non aveva la stoffa del leader come il suo coetaneo Gianni Rivera, né, ovviamente si dannava nei recuperi o in copertura come Sandro Mazzola.
L’Italia calciofila di quegli anni era dominata da questa grande rivalità fra l’asso di Alessandria e il figlio del grande Valentino e la nazionale faceva fatica a trovare un equilibrio fra i due. Corso era semplicemente, fra loro, un terzo incomodo, se non un replicante; non per abilità minori, ma solo perché non era un uomo squadra.
Nel 1966 il CT Edmondo Fabbri schierò in campo tutti e tre gli assi. Era una partita contro la Francia ed esordiva in nazionale un certo Luigi Riva.
“ I francesi – scrisse Brera – non sono molto più di nulla, ma i nostri (tre) deliziosi abatini danzano sulla palla a miracol mostrare. Potrebbero costruire per Riva ma, evidentemente non lo ritengono degno dei loro lanci”.
Già, gli Abatini, Brera chiamava così i grandi talenti privi di verve agonistica.
Corso fu molto più abatino dei suoi illustri colleghi; era oltretutto insofferente alla disciplina calcistica e trattava con disdegno Herrera ogni volta che lo richiamava) ( “Tasi mona” lo apostrofava con il suo dialetto veneto.)
Tuttavia la piazza interista lo adorava e il Presidente Moratti non lo cedette mai. Vinse molto col suo club ma non partecipò mai a un’edizione dei Mondiali o degli Europei. E ‘da immaginare che nel calcio odierno un atleta del genere incontrerebbe molte difficoltà nel conquistare un suo spazio, o lo troverebbe solo dopo un adeguato ricondizionamento psicologico. Per lui erano già troppo stretti gli schemi di Helenio Herrera.
Tentò la panchina ma la sua parabola di allenatore fu, non imprevedibilmente, breve e non fortunatissima. Al di là di questo la sua figura è rimasta bene impressa nella fantasia dei calciofili che l’hanno conosciuto.
Un brillante e raffinato scrittore come Edmondo Berselli gli dedicò un libricino, nel 1995, intitolato “ Il più mancino dei tiri”. nel quale il talento di quello che fu uno dei primi trequartisti del calcio moderno è assunto a paradigma dell’imprevedibilità, dell’inatteso che scompagina schemi e previsioni rigide. Un libro divertente e paradossale, pieno di cultura e umorismo, che racconta di calcio, storia, filosofia, canzoni popolari e tanto altro. Scorrendolo oggi, per preparare queste righe, ho (ri)pensato a quanto il calcio sia spesso, e non da oggi, un mondo un po’ triste e troppo autoreferenziale, senza ironia. Giocatori come Mariolino Corso davano, non solo in campo, un tocco di leggerezza e di disincanto