Boldrini: "La scommessa di Globalsport? Insegnare il giornalismo direttamente sul campo". | Globalsport
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Boldrini: "La scommessa di Globalsport? Insegnare il giornalismo direttamente sul campo".

Parla il professore di Giornalismo e nuovi media nel Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione e Pianificazione Media dell’Università di Siena.

Boldrini: "La scommessa di Globalsport? Insegnare il giornalismo direttamente sul campo".
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12 Maggio 2020 - 17.51


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di Marco Buttafuoco

È ancora quella del giornalista, una figura attuale? Non è resa anacronistica dall’alluvione di notizie che la rete ogni giorno riversa sui miliardi di pc del mondo iperconnesso? È ancora possibile, per un giovane, aspirare a un lavoro (carriera potrebbe addirittura sembrare un vocabolo troppo ottimista) in quel mondo? Il web ha indubbiamente rimescolato le carte, se non rovesciato il tavolo, ma il fronte di chi resiste e persino crede che ci siano le basi di un contrattacco dell’informazione di qualità è agguerrito e importante.
Un esempio per tutti è Open, il giornale fondato da Enrico Mentana e gestito da un gruppo di giovani professionisti.
Anche Globalist rilancia.
Da qualche giorno la “costola” sportiva del nostro quotidiano, Globalsport, è affidata, in piena autonomia, a un gruppo di otto giovani, tutti studenti di “
Giornalismo e nuovi media” nel Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione e Pianificazione Media dell’Università di Siena.
Maurizio Boldrini, giornalista storico della stampa italiana e tra i fondatori del Corso di laurea in Scienze della Comunicazione, è il loro insegnante.

“È un superamento radicale dello stage formativo cui gli studenti di giornalismo si sottopongono, frequentando per un certo periodo la redazione di un giornale, ma restando, come accade in quasi tutti questi percorsi, in qualsiasi settore, degli spettatori, in genere passivi. Non dico che gli stage siano inutili e continuerò quindi a proporli ai miei studenti; sono pur sempre un’immersione, seppur superficiale, nell’ambiente e valgono come crediti formativi. In questo caso, tuttavia, i giovani sono chiamati a confezionare in prima persona il loro giornale; dovranno adattarsi ai ritmi di produzione delle notizie, valutare in autonomia quali pubblicare e in che modi e in che  tempi. Nel loro curriculum ci sono già studi teorici sul giornalismo ed esercitazioni sulle varie scritture necessarie a confezionare un articolo (cronaca, sport, cultura, dibattito politico), sanno tutto sulle teorie sugli e gli studi del cosiddetto newsmaking. Ora sono sul campo collegati alla rete di Globalist e alle agenzie, ma con la piena libertà sulle scelte: dal flusso incessante di notizie, dal rumore di fondo della rete, dovranno vagliare, impaginare, titolare, scegliere cosa merita un’inchiesta, essere pronti alla notizia che sconvolge i piani della giornata: tutte le operazioni connesse della vita da giornalisti. A turno, in coppie, presidiano il desk dalle otto di mattina a mezzanotte.
La direzione di Globalist, ed io, li seguiamo e li aiutiamo perché il loro è un percorso duro, accidentato, dove l’errore è sempre possibile. Li rimbrottiamo anche, se necessario. La determinazione ce l’hanno e i primi risultati, molto buoni,li stiamo vedendo. In ogni caso stanno facendo un giornale vero, che sarà giudicato dai lettori; Globalsport non è un gioco, ma un lavoro serio, difficile come deve essere il buon giornalismo. Per loro sarà una palestra severa, un’esperienza importante per il loro futuro”.

Quindi lei, professore, dopo lunghissimi anni d’insegnamento e di militanza giornalistica è ancora ottimista sul futuro di questa professione e sulla possibilità di un’informazione di qualità? Certe recenti esperienze di giornali, penso ovviamente a L’Unità, alla cui vita lei ha partecipato a lungo,sembrano smentire la sua fiducia.

“Il mondo non è L’Italia e non tutti i gatti sono bigi. La crisi c’è ed è sotto gli occhi di tutti. Ma è una crisi che investe l’intero sistema editoriale e dell’industria culturale in grande trasformazione.
Ma non mancano stimoli e esperienze positive: il New York Times aumenta le copie vendute; il Guardian va ancora bene, la buona stampa non è morta.
Anche in Italia ci sono esempi positivi: nelle edicole si possono trovare pubblicazioni come Internazionale, o pagine culturali interessanti come quella de Il Corriere.
La nostra stampa non è tutta prona a seguire i modelli proposti da Feltri o Sallusti. 

Anche la rete è ricca di buona informazione. Dobbiamo accettare due verità ineludibili, se vogliamo capire cosa sta accadendo. La prima è che il mondo della comunicazione sta cambiando; oggi un giornale è quasi sempre parte integrante di un sistema più ampio. La flotta di Cairo, ad esempio, senza entrare nel merito dei contenuti è ben articolata (Corriere Della Sera come nave ammiraglia, La 7 come cannoniera pesante, i settimanali popolari come naviglio leggero) e molto ben schierata intorno a un piano di battaglia editoriale molto chiaro.
Il secondo è che non c’è più il giornalista come figura predefinita (a dire il vero, anche nelle redazioni tradizionali c’era già una certa varietà di ruoli); ci sono vari giornalismi in un panorama sempre più complesso:giornali, radio e televisioni nazionali e locali, piattaforme digitali, quotidiani e periodici on line, blog. Gli uffici stampa stanno diventando sempre più importanti e la vicenda di Covid (che, a sua volta, sta ulteriormente scompaginando e ridisegnando ogni scenario) aumenterà la loro funzione perché le istituzioni e le aziende saranno costrette a uno sforzo importante di trasparenza. Torna d’attualità la comunicazione istituzionale.
L’Unità è chiusa, non perché facesse cattivo giornalismo, la qualità di quelle pagine era ottima, ma perché a sostenerla, non c’era un editore puro, con una sua strategia, e con scelte aziendali chiare. Quel lungo fallimento è figlio del disastro di una sinistra che non ha letto la realtà di una comunicazione immersa nel cambiamento. Diverso è invece il dato, innegabile, che il paese sta conoscendo un generale decadimento del linguaggio e della comunicazione.
Un processo iniziato da una televisione generalista povera di contenuti, che ha puntato tutto sulla spettacolarizzazione e sulla popolarizzazione. Ad esempio,ovunque, anche nei migliori giornali, si assiste a un fenomeno particolare, molto evidente oggi nelle cronache del Coronavirus, quello della serializzazione; ovvero ogni argomento è trattato come una fiction a puntate, spremuto fino ai minimi particolari e quindi, alla fine, inaridito. Si potrebbe dire lo stesso della ricerca della storia a tutti i costi, della narrazione fine a se stessa, a come se si trattasse di una novità clamorosa.
Il primo storyteller fu Omero. Quello che conta è, invece, saper raccontare.
I social, naturalmente sono un terreno ideale, sempre fertile, per questo fiorire di approssimazione e trascuratezza, di faciloneria e mancanza di senso critico”.

Scrivere di sport non è certo un genere minore. Cosa si aspetta dall’impresa dei ragazzi di Globalsport?

“Come si potrebbe considerare minore un fenomeno sociale che coinvolge tante passioni e anche tanto denaro, questo enorme accumulo di leggende e business? La scrittura sportiva è importante, ed è un genere in cui si sono cimentate grandi penne, Gianni Brera come anche Jack London,  per citare i primi che mi vengono alla mente.
Chiedo ai ragazzi di puntare diritto alla qualità, di non scadere negli stereotipi, di non incappare negli errori di tanti giornalisti sportivi che si adeguano alla moda di guardare gli atleti nella loro vita privata o biascicano formulette insipide.
Chiedo loro di saper distinguere fra notizia e approfondimento. Chiedo loro di raccontare cose nuove e inedite ma, soprattutto di raccontarle bene, con la cura maniacale delle fonti e quella altrettanto decisiva dello scrivere. Ripeto, la rete pullula di prodotti di alta qualità, per chi li vuole e li sa cercare e Globalsport deve diventare uno di questi prodotti”.

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