Marco Reus: talento e sfortuna

Dopo il goal di martedì con cui ha interrotto l'imbattibilità del City, il capitano giallonero ha fatto nuovamente parlare anche per la sua carriera sfortunata. Ma è corretta come valutazione?

Marco Reus: talento e sfortuna
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9 Aprile 2021 - 13.30


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Il capitano del Borussia Dortmund, autore martedì del goal del momentaneo 1-1 all’Etihad contro il City che ha interrotto l’imbattibilità di Ederson in Champions League dopo 788 minuti, è anche il giocatore più prolifico della storia giallonera in Champions con 18 goal, superato il grande amico Lewandowski.
Ma soprattutto, è un calciatore che ha dovuto affrontare numerose batoste sportive: oltre agli ultimi Europei saltati per infortunio, nella sua bacheca personale manca un mondiale, a seguito dell’infortunio in amichevole a Giugno 2014 contro l’Armenia, ma anche qualche trofeo di club in più che forse il BVB ha mancato negli anni scorsi proprio per l’assenza in momenti topici della stagione del proprio numero 11.  
Un giocatore che negli anni è divenuto sempre di più il perno su cui costruire la squadra: c’era quando il BVB di Klopp e Lewandowski perse la finale di Champions contro il Bayern Monaco, c’era quando con Tuchel ed Aubameyang faceva ben sperare per un ritorno del Meisterschale nella regione della Ruhr, c’è adesso con la nuova generazioni di talenti sbarcata a Dortmund.

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 In tutti questi anni il suo modo di giocare è cambiato, ma non il suo talento – Il figlio di Thomas Reus nasce a Dortmund nel 1989 ed esordisce dopo 20 anni in Bundesliga con il Borussia Moenchengladbach, dopo averlo scovato nella Zweite Liga dal Rot-Weiss Ahlen, a cui andò dopo la trafila nelle giovanili della squadra della sua città che nel 2006, dopo 10 anni, lo lasciò andare via senza troppi complimenti.
Partendo dalla terza si è quindi conquistato la massima serie, giocando in varie posizioni interpretando diversamente il ruolo di trequartista grazie alla sua velocità di pensiero e la capacità nel dribbling: quello del rifinitore, dell’uomo capace di fornire l’assist decisivo, ma anche all’occorrenza di una buona capacità realizzativa.
Questo e molto altro, come il trascinare la sorpresa Gladbach al 4° posto, sono le cose che ha fatto per due anni sotto la gestione Favre al Borussia Park, in cui nell’ultimo anno segna 21 goal in totale conquistando in un colpo solo il premio come giocatore rivelazione della Bundes ma anche come il miglior giocatore tedesco dell’anno.
Da ala sinistra o mezzala, tanto tecnico e veloce quanto fragile, si fa conoscere e apprezzare quindi dal grande pubblico tanto da meritarsi il ritorno per 17,5 milioni a casa dal suo Borussia, quello di Dortmund.
Arriva alla corte di Klopp quando sono pronti a dare l’assalto alla Champions dopo aver vinto due campionati, si posiziona ala sinistra nel 4-2-3-1 e diventando ancor più efficace sotto porta, è insieme a Gotze e Lewandowski il protagonista del sogno giallonero del 2013.
Cambiano gli allenatori, i compagni, e cambia anche il suo ruolo: con l’arrivo di Tuchel nel 2015 al posto di Klopp, cambia la posizione del numero 11 che si sposta al centro del tridente di mezze ali e trequartisti dietro la punta, concessa piena libertà di agire e pensare come un vero e proprio regista offensivo sa e deve fare.
Negli ultimi anni, con il cambiare del calcio e del suo fisico, anche il suo stile di gioco è mutato: nel 3-4-2-1 di Favre prima e nel 4-3-2-1 di Terzic visto martedì sera, è diventato via via un creatore di gioco che incide soprattutto negli ultimi metri, capace, stando dietro il terminale offensivo, di trasformare le azioni in offensive grazie alla sua abilità associativa che gli permettere spesso di fare il passaggio decisivo, o sfruttare gli spazi che l’attaccante di turno fornisce attirando i suoi marcatori (come in occasione del goal contro il City).

Il tempo passa– Non è cambiato solo il suo modo di giocare però, ha lavorato molto sul suo fisico rendendolo capace di resistere ai molti contrasti che in ogni partita vengono offerti a chi, come lui, è il più creativo, quello che riceve più spesso il pallone sui piedi, ma anche il suo famoso taglio di capelli: sembrava ieri che con il suo taglio a spazzola compariva nella copertina del videogioco FIFA17.
Anche l’età è cambiata: ora il figlio di Dortmund che ha dovuto essere propheta ex patria per riuscire ad esserlo a casa, ha 31 anni, non ha la velocità e la corsa di un tempo, ma ha messo al servizio di una squadra che ogni anno si ringiovanisce, la propria esperienza, che gli permette anno dopo anno di rimanere fondamentale per far girare bene i meccanismi offensivi di una squadra che ieri aveva Gotze, Dembele, Aubameyang e Mkhitaryan, oggi Sancho e Haaland e domani Moukoko e Bellingham.

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Essere umano– Il beniamino di casa che poi sarebbe diventato capitano nel 2018 con l’arrivo di Favre, disse un anno prima in un’intervista per Gq: “darei tutti i miei soldi per poter tornare a giocare a calcio, per essere sano”, citazione talvolta travisata (negli scorsi giorni si è letto spesso “darei tutti i miei soldi per tornare indietro e giocare a calcio senza tutti gli infortuni”) quando in realtà lui ha spesso ribadito del non stare male per ciò che poteva essere o fare perché vuole godersi il presente.
Gli anni sono passati intanto, 7 da quella incredibile stagione condita da 23 reti e 16 assist che sarebbero valsi il biglietto per Rio, 4 dalla finale conquistata da Tuchel che con Reus a pieno regime era capace di vincere contro il Bayern, ma solamente 2 dal secondo successo alle votazioni come “Fußballer des Jahres” (il miglior calciatore tedesco dell’anno), fatti che dimostrano che nonostante gli infortuni, sono quasi 10 anni che Marco Reus gioca e brilla ad alti livelli senza aver mai smesso.
Come appassionati ci interroghiamo spesso sui grandi “What if…”, ci si chiede se un giocatore sarebbe potuto diventare ancora più forte di quel che è poi realmente diventato, ci dispiace quando un talento su cui abbiamo puntato non raggiunge l’apice, ma è giusto?
Lui stesso offre uno spunto interessante in quello stesso anno passato più in ospedale che in un campo da gioco: “è umano pensare a cosa non sono riuscito ad ottenere, ma se ci ripenso troppo, se penso a quel che ho perso, perdo di vista ciò che devo fare; non puoi ricominciare tutto, non è un videogame in cui puoi giocare nuovamente, tutto ciò che posso fare è riprovare per essere migliore, per essere più fortunato, la prossima volta”.
La vita, come lo sport, non è forse un guardare avanti nonostante tutto, cercando ad ogni batosta di crescere ed essere migliori?

Marco Reus, oggi– Il giocatore con la fascia al braccio e il numero 11 sulla schiena che su assist di Haaland ha fatto tremare Guardiola è il simbolo di una squadra che negli ultimi anni ha avuto sì molti alti e bassi, ma ha sempre sfruttato i momenti di difficoltà per migliorarsi, per evolversi, senza mai perdere l’obbiettivo di vincere e far divertire.
E questo è forse il destino di Marco, al di là della sfortuna, perché la sua è ancora la maglietta che più definisce cosa vuol dire oggi tifare Borussia, giocare nel BVB ed essere di Dortmund.
Nonostante i giocatori che vanno e vengono, i sogni che a volte diventano obbiettivi, tra i tifosi gialloneri esiste solo un motto, una filosofia, che definisce la storia di questa squadra: Echte Liebe, vero amore.
E nonostante gli infortuni alle caviglie, ai legamenti del crociato, nonostante le partite saltate e i trofei persi, i giorni passati a casa e non in campo, per Reus ci sarà sempre quello che lui prova per il Dortmund e quello che i tifosi tributano per uno di loro: echte Liebe.
E in un mondo in cui ci si trova spesso a documentare la sfortuna dispiacendoci per ciò che di meglio poteva succedere, è giusto pensare a Marco Reus per ciò che comunque ha conquistato ed è riuscito a diventare ed essere: un esempio che è amato dai tifosi della sua squadra del cuore per come gioca ma soprattutto per come è, rendendolo di fatto ancor di più un fuoriclasse.

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