di Marco Buttafuoco
“Eravamo nel secondo tempo e conducevamo per uno a zero; la Reggiana attaccava e noi tentavamo di fissare il risultato che ci consegnava la promozione in A. Poi, verso la fine, Marco Osio mi fece filtrare un pallone che in profondità poco dopo la metà campo. Avevo spazio libero e mi ci gettai a capofitto; cominciai a correre verso la porta con gli avversari sbilanciati. Forse c’era qualche compagno in posizione migliore della mia. Io non guardai nessuno perché volevo essere nel tabellino di quel match, non pensavo ad altro. Io, parmigiano, ragazzo della curva nord, cresciuto nella società che mi stava portando in A, volevo segnare e mi feci quasi metà campo da solo, verso la nostra curva. Fu due a zero, e il momento più felice della mia vita sportiva.”.
Così Alessandro Melli, punta di quel Parma che, allenatore Nevio Scala, raggiunse il 27 maggio del 1990 la massima serie. Cominciò in quel momento una storia controversa e forse unica nel calcio italiano.
Il Parma da modesta società di provincia diventò presto, grazie alla Parmalat che ne rilevò la proprietà, una realtà importante del calcio europeo.
Vinse Coppa Italia, Coppa della Coppe, Coppa Uefa, Super coppe ma non entrò mai nell’albo d’oro dei vincitori di scudetto. La proprietà dispiegò un grande impegno finanziario. Arrivarono, negli anni, Asprilla, Zola, Thuram, Stoichkov, Cannavaro (Buffon era cresciuto nella società), Veron, Crespo, Chiesa, e fino ai primi anni 2000 si vedeva, allo stadio Tardini, un calcio stellare. Nel frattempo erano cambiati gli allenatori e a Scala subentrarono Ancellotti, Malesani, Ulivieri. Come si seppe dopo, però, le finanze Parmalat erano una galassia opaca, costituita di materia molto oscura, un castello di carte.
Forse i “mitici” anni 80 furono questo, in tutta Italia, un guardare all’immediato senza mai porsi il problema delle sostenibilità; la vicenda del Parma è una delle code di questa illusione, basata sul vuoto, sull’alterazione della realtà. Occorrerebbe un libro intero su questa vicenda, un libro che sarebbe anche un’opera storica sulla società italiana e sui suoi errori di prospettiva. Questo pezzo si limiterà invece, per questioni di spazio, a un ricordo dei primi anni.
Melli, otteneste subito gradi risultati; un sesto posto nel primo campionato, una coppa Italia contro la Juventus nella seconda stagione e via brillando. Il vostro era un gioco divertente e la citta vi amava molto. Ho l’impressione che nessuno di voi, a partire da Scala, una volta lasciata Parma, per vari motivi, non avete più brillato. Avete avuto tutti carriere dignitose, ma niente di scintillante. Sbaglio?
No. È una cosa giusta da dire. È che eravamo un gruppo molto compatto, intendo sul piano umano. Stavamo bene insieme, divertivamo a lavorare insieme. Eravamo amici, e lo siamo ancora, da ex calciatori, ci sentiamo spesso, ci vediamo. Nell’anno della promozione avemmo un periodo negativo in cui totalizzammo due punti in nove partite. Fu dopo la morte del nostro Presidente Ceresini, avvenuta a metà campionato. Ne fummo tutti colpiti Gli volevamo bene. La società era furibonda. Scala ci obbligò a un ritiro lunghissimo che a noi non pesò per niente perché lo consideravamo un’occasione di stare insieme. Scala, in quei giorni, non ci rivolgeva nemmeno l a parola. Ecco questa dimensione amicale è stata la nostra forza nei primi anni di A, la nostra debolezza quando abbiamo lasciato il nostro piccolo mondo e ci siamo cimentati su altri campi (Melli ha giocato nella Sampdoria, nel Milan e nel Perugia). Il Parma di quegli anni, che si allenava in un parco cittadino, è stato messo insieme da un’alchimia unica, irripetibile, rara da trovare nel mondo del calcio professionistico. Allora tutto girava, tutto s’incastrava a perfezione. E questo capita di rado, anche nella vita.
Su quell’intelaiatura di squadra che arrivò alla serie A, furono innestati giocatori di grande talento, a partire da Tino Asprilla, secondo me il più grande, dal punto di vista tecnico.
Tino era davvero spettacolare ma anche molto umorale, discontinuo. In certe giornate non lo fermava nessuno, dominava la partita da solo. In altre ti chiedevi dove fosse finito, se era ancora in campo. Spariva. Sì, l’ho definito un videogame. Fu dopo una partita con il Foggia. Vincevamo quattro a zero dopo due gol suoi e due miei. Lui si bevve tutta la difesa, portiere incluso, ma fu costretto ad allargarsi a fondo campo.
Io ero al centro dell’area, solo; bastava un tocco rasoterra per farmi segnare. Tino aspettò troppo, voleva divertirsi, e sul ritorno di un difensore, fu costretto a liberarsi troppo velocemente della palla. Ne venne fuori un cross teso che mi colpì, da tre –quattro metri, sulla faccia. Avrei urlato dietro a chiunque altro per una cosa del genere, ma Tino era Tino. Ridemmo per tutto il resto della partita. In ogni caso il più grande dei miei compagni di squadra è stato Gianfranco Zola. Anche se non era in giornata sentivi che c’era, che dava una mano. Ma quando era in forma era un fenomeno. Lui e Tino, giocando insieme, erano una gioia per gli occhi dei calciofili.
Cosa ha portato di nuovo Scala nel calcio italiano?
Fondamentalmente quel gioco sulle fasce che parte da lontano, dalla zona difensiva. Il nostro era un falso 5-3-2, e i laterali bassi erano Di Chiara sulla destra e Gambaro prima e Benarrivo poi, sulla sinistra.
In realtà spingevano moltissimo e partendo da dietro sorprendevano gli avversari. Nel 5-3- 2 tradizionale i terzini sono ancorati alla fase difensiva. Scala, tecnico preparatissimo, ebbe la sua fortuna nel trovare un gruppo così unito, nel quale poteva anche esercitare il ruolo, per così dire di padre padrone. Aveva molto carisma e noi avevamo bisogno di quel tipo di carisma. Aveva idee chiare e precise sul calcio, ma non era un ideologo del calcio come fu il primo Sacchi, che ho avuto come allenatore al Parma, prima di lui. Sacchi vedeva più lontano degli altri e a volte, i giocatori facevano fatica a capire cosa volesse. Scala era più pragmatico, diceva che la squadra doveva essere compatta fino alla tre quarti, ma lasciava liberi gli attaccanti di esprimersi come volevano. Non ha mai messo, ad esempio, la museruola ad Asprilla.
Quel Parma è poi finito, come finisce ogni vicenda. Parliamo un po’ dell’oggi. Secondo lei è giusto riprendere il campionato, dopo la tragedia del Covid?
No, non ha senso. Non ci crede più nessuno. Se si riprenderà chi avrà vinto non si sentirà soddisfatto, chi avrà perso non avrà particolare sofferenza. Si dà buon calcio solo se c’è adrenalina, convinzione. entusiasmo. Come si fa a ingabbiare un gioco in regole rigide, a chiedere ai giocatori di esibirsi un uno stadio vuoto, a non esultare? Questo sarà lo scudetto dell’anno del Covid e gli stessi tifosi non provano più alcun interesse per questa stagione, per motivi fin troppo ovvi. Certo alla fine ci sarà un danno economico da gestire e io non ho ricette da dare per evitare questo danno. Ma che questi mesi abbiano ucciso il gusto del calcio come gioco e come spettacolo, e senza di quello si perde l’anima stessa di questo sport.
Due parole rapide sul calcio che si gioca oggi.
Secondo me le regole attuali favoriscono troppo l’attaccante e fanno perdere il gusto della lotta fra una punta e i suoi marcatori. Il difensore è troppo limitato, a differenza di quanto accadeva quando giocavo io. È che le televisioni, vere padrone del business, vogliono spettacoli con tanti gol. Lo 0 a 0 è quasi un a bestemmia, lo spettacolo è tutto nel gol. Si preferisce per lo stesso motivo, l’azione manovrata, e si è perso il gusto del contropiede, che è uno dei momenti più emozionanti di questo gioco (Melli ha segnato gol spettacolari in questa fase di gioco). Così un allenatore preparato come D’Aversa, per restare al Parma, è giudicato un passatista, nonostante la sua squadra abbia un’identità e un modulo di gioco efficace, con il quale ha ottenuto risultati notevolissimi. Io preferisco ancora una partita con pochi gol ma con squadre che giochino ben in ogni reparto. Direi che un gol segnato ai miei tempi, magari superando un fuoriclasse come Maldini, o un mastino come Pasquale Bruno vale tre gol di oggi. Un’altra cosa che tollero poco è il Var, che limita troppo la libertà di movimento in campo.